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Slovenia: dove il disturbo mentale è un reato

06/07/2023

Portrait by Robert Balen

Reporter:

Klara Širovnik

Confinamento 24 ore su 24, ore di immobilizzazione, violenza, isolamento, infantilizzazione... questo è il destino riservato a molte persone affette da disturbi mentali in Slovenia. Da alcuni anni il Paese sta cercando, come meglio può, di cambiare il modo in cui tratta la salute mentale. Ma quali sono i risultati? Pazienti, parenti e assistenti raccontano le loro storie.

Joc Podlesnik, un uomo di 59 anni, tiene una sigaretta tra il medio e l’indice mentre passeggiamo in piazza Prešeren, forse la più bella di Lubiana. Mentre io e il suo caro amico Andraž Rožman – scrittore, giornalista e attivista – chiacchieriamo lungo la strada, Joc ci segue a poca distanza. Ogni tanto si allontana e poi ci raggiunge, saluta una vecchia conoscenza, si accende un’altra sigaretta, recupera una scatoletta di cibo da chissà dove e si ferma a fare una telefonata. Le estati insolitamente calde che Lubiana ha vissuto negli ultimi anni non disturbano Joc mentre gira per la città. Per sfuggire al caldo, che sfianca le persone e le lascia senza fiato, nuota nel fiume Ljubljanica. Questa città e queste strade sono la sua casa e ogni volta che è stato costretto a lasciarle, nel corso della sua vita, ha sofferto.

  • Nonostante il caldo, Joc fa una pausa sigaretta dopo l'altra.

  • Nonostante il caldo, Joc fa una pausa sigaretta dopo l'altra.

  • Nonostante il caldo, Joc fa una pausa sigaretta dopo l'altra.

Il re della strada

Ci stiamo dirigendo verso la sede dell’organizzazione Kralji ulice – “re della strada” – dedicata alle persone bisognose, che pubblica un proprio giornale. Grazie alla vendita di questo giornale, che costa un euro, molte persone tossicodipendenti, senzatetto o con disturbi mentali possono guadagnarsi da vivere in Slovenia. Fuori dall’edificio dell’organizzazione si è radunata molta gente, per lo più uomini. Vengono qui per vendere i giornali o per cercare conforto. Al momento Joc non fa parte dei venditori, ma visita regolarmente l’organizzazione. A Kralji ulice ci sono dei suoi amici che è felice di incontrare, e si sente al sicuro. Oggi riceverà anche un pass gratuito per un’imminente partita di basket, che per un tifoso appassionato come Joc è “una necessità assoluta”!

“La prima volta, nel 1982, mi hanno lavato come un maiale, con acqua fredda e un tubo nero”

Da bambino, Joc voleva studiare storia e geografia. Era attratto da paesi esotici, città straniere e altri mondi. Dopo che gli è stata diagnosticata una schizofrenia paranoide, è stato ricoverato in un reparto psichiatrico e i suoi progetti sono andati in fumo. “Quando sono stato ricoverato per la prima volta nel 1982, mi hanno lavato come un maiale, con acqua fredda e un tubo nero”, ricorda. “La parte più spaventosa è quando devi spogliarti. Due uomini enormi, che sono tecnici sanitari, ti accompagnano allo spogliatoio. Se sei troppo lento, rischi di essere colpito”, spiega con un tono di rassegnazione nella voce.

“La storia di Joc è innanzitutto una testimonianza sulla situazione del nostro sistema di salute mentale”, commenta Andraž. “Ma è anche una storia sul presente: le condizioni negli istituti psichiatrici chiusi non sono cambiate molto fino ad oggi. Solo i metodi sono leggermente diversi”, aggiunge.

Violenza legale

Andraž non è sorpreso dalle condizioni disumane in cui le persone con problemi di salute mentale hanno vissuto – e continuano a vivere – in Slovenia. In questo Paese, rispetto ad altri Stati membri dell’UE, la deistituzionalizzazione è iniziata tardi e a un ritmo più lento. In Italia, ad esempio, il processo era al suo apice nel 1980 e il ricovero in istituto era vietato per legge. In questo Paese confinante, le persone con disturbi mentali gravi e cronici venivano assistite in diversi centri di salute mentale regionali. Un’iniziativa che non ha trovato riscontro oltre la frontiera, in Slovenia.

La retorica che giustificava la decisione di non avviare la deistituzionalizzazione sosteneva che vi fossero numerosi difetti in questo processo, nonché possibili effetti negativi, come un presunto aumento dei senzatetto e la mancanza di assistenza per i pazienti psichiatrici. Ad oggi, nessun istituto in Slovenia è stato completamente chiuso e la maggior parte delle cure per le persone affette da disturbi mentali è ancora fornita dall’assistenza istituzionale, mentre ci sono meno strutture per la vita in comune e servizi basati sulla comunità. Inoltre, gli istituti per lungodegenti e le unità istituzionali stanno addirittura crescendo o sono in fase di rinnovo. Anche se i protocolli sono disponibili, le opportunità di reinsediamento nella società rimangono limitate.

 

"Le persone vengono in psichiatria con la paura, angosciate e spesso esprimendosi in maniera aggressiva. In cambio, ricevono coercizione e violenza"

Come attivista e scrittore, che esplora anche i problemi di salute mentale nei suoi documentari, Andraž ha sentito decine di storie simili a quella di Joc, mi racconta. Alcune delle violenze negli ospedali psichiatrici sono legali – come l’essere legatɜ per quattro ore – e altre non lo sono, ma esistono comunque – come le eccessive misure di contenimento, fino a dieci giorni, la disidratazione intenzionale e le percosse genitali. “Le persone vengono in psichiatria con la paura, angosciate e spesso esprimendosi in maniera aggressiva. In cambio, ricevono coercizione e violenza. I farmaci vengono forniti, ma non c’è abbastanza terapia basata sul dialogo”, continua Andraž.

Una carriera da pazzo

Quando Joc ha iniziato la sua “carriera da pazzo”, come la descrive lui stesso, c’erano altri metodi, come l’elettroshock e la terapia con l’insulina. Questi metodi non vengono più applicati, ma la violenza persiste. Andraž, che lavora quotidianamente con persone che hanno vissuto o vivono in questi istituti, dice: “Lɜ operatorɜ spesso trattano le persone non come soggetti ma come oggetti, senza credere che la volontà della persona interessata abbia un valore. Per cambiare questa situazione, è necessario un cambiamento fondamentale nel pensiero e nel sistema”.

 

  • La camera da letto di Joc è il riflesso dei suoi numerosi e talvolta sorprendenti hobby.

  • Donne, fiori, scatole e quadri: non ci sono visite dopo le 22, ma Joc è ben circondato.

  • In tutto il suo girovagare, Joc è riuscito a conservare i suoi album fotografici.

Joc è un uomo molto riflessivo. Mentre camminiamo verso il suo appartamento dall’altra parte di Lubiana, parla di cambiamenti climatici, calcio, vendite di antiquariato e pesca. I suoi tanti interessi sono evidenti nella sua stanza parecchio disordinata, in cui si fa fatica ad entrare per il numero di oggetti. Le pareti sono ricoperte di fotografie di sportivi famosi e di imitazioni di opere d’arte. Gli scaffali sono tappezzati di libri, riviste e album fotografici contenenti immagini di persone con cui Joc non ha più contatti e di altre che continua a frequentare. Quando non si incontrano nel centro di Lubiana per un caffè e un croissant – il suo dolce preferito – è qui che Joc e Andraž trascorrono il tempo insieme.

“Quando si parla della casa, Joc è sempre sul chi va là”, dice Andraž seduto nella stanza del suo amico. Per un po’ ha vissuto in un appartamento di sua proprietà, poi è stato inserito in una casa famiglia dell’Associazione slovena per la salute mentale (ŠENT) e si è ritrovato senzatetto per un breve periodo. Nel 2017 si è trasferito in un appartamento del Ljubljana Housing Fund – la sua attuale sistemazione – che è un “istituto senza personale”.  Ogni abitante di Lubiana può teoricamente fare domanda per un alloggio di questo tipo. Se si soddisfano i criteri di ammissibilità (tra cui disoccupazione, disabilità, vulnerabilità sociale), ci si può aspettare che la domanda venga approvata. Tuttavia, questo non è un luogo in cui le persone con disabilità mentali, comprese quelle che sono state in istituti per lungo tempo, ricevono assistenza per le attività quotidiane che potrebbero non essere in grado di svolgere da soli, per l’assistenza fisica se ne hanno bisogno o per le terapie di cui potrebbero necessitare.

Poiché, secondo le autorità, Joc non ha rispettato le regole - cosa che lui nega - deve andarsene. Potrebbe ritrovarsi di nuovo per strada.

L’edificio, con i suoi lunghi corridoi bianchi e i bagni in comune, ospita persone di ogni provenienza – con problemi di salute mentale, senzatetto… persone che hanno commesso violenza e persone che ne sono state vittima. Tuttɜ i residenti possono andare e venire a piacimento, ma devono rispettare una serie di regole, tra cui il divieto di ricevere visite dopo le 22:00. Poiché le autorità affermano che Joc non rispetti le regole (anche se lui è fortemente in disaccordo con questa affermazione), ora deve andarsene. C’è la possibilità che Joc si ritrovi di nuovo per strada, e sebbene sia uno deɜ pochɜ che è riuscito a lasciare l’assistenza istituzionale – almeno in parte – la sua vita avrebbe potuto essere diversa con il giusto sostegno.

L’offerta di un supporto adeguato in Slovenia è ancora in fase iniziale e gli istituti chiusi hanno una lunga storia. Andraž ricorda uno dei primi istituti (o rami di istituto) ad essere stati chiusi in Slovenia: quello di Trate, operativo nel Castello di Cmurek dal 1949 al 2004 (e che fa parte del più grande Istituto di Hrastovec, che gestisce diversi rami, alcuni dei quali sono ancora attivi oggi). All’inizio l’Istituto di Trate era riservato ai malati gravi e agli infermi (che sovente erano anche poveri o senza parenti) e successivamente aɜ pazienti neurologici e mentali.

Il museo della follia

Il castello si trova proprio al confine con l’Austria – il fiume Mura, che è stata la naturale linea di demarcazione tra i due Paesi negli ultimi 100 anni, scorre sotto le mura. Darja Farasin e Sonja Bezjak abitano a Trate. Sono cresciute vicino all’istituto dove all’epoca vivevano 350 pazienti 24 ore al giorno. Mentre attraversiamo il castello, grande e freddo, Sonja ricorda: “Le persone residenti nell’istituto a volte passeggiavano per il villaggio, ma non c’era alcun contatto significativo tra loro e la gente del posto”. Quando iniziò a circolare la voce che la struttura sarebbe stata chiusa, la gente del posto iniziò a temere di rimanere senza lavoro. Alla fine, tuttavia, il personale di Trate non perse il proprio impiego, sebbene ora sia costretto a recarsi alle nuove sedi dell’Istituto di Hrastovec, aperte in alcune città limitrofe. A 20 anni dalla chiusura, Sonja afferma felice: “Possiamo essere orgogliosɜ che il primo ‘istituto totale’ in Slovenia sia stato chiuso nel 2004, proprio qui a Trate”.

Per evitare che il castello cada in rovina – e per trarre insegnamento dalla storia recente – le ex “corsie deɜ pazienti” sono state trasformate in un museo della follia. Sonja ne è la direttrice. È molto appassionata della gestione del museo, un lavoro che svolge su base volontaria e senza retribuzione. “Questa è la nostra eredità e con questo museo vogliamo sensibilizzare l’opinione pubblica e contribuire al rispetto dei diritti umani delle molte persone che ancora oggi vivono negli istituti. Dobbiamo contrastarli”, continua l’autrice.

  • Darja Farasin e Sonja Bezjak sono cresciute a due passi dal castello di Cmurek e ora ne animano il museo.

La creazione di istituti come quello di Trate è iniziata con l’industrializzazione, quando le persone hanno iniziato a lavorare fuori casa e non erano più in grado di prendersi cura deɜ loro parenti disabili. Durante l’occupazione nazista della Stiria slovena nel 1941, moltɜ malatɜ mentali furono giustiziatɜ (circa 600 persone disabili della Stiria slovena vennero portate nei campi di sterminio in Austria), e dopo la guerra, castelli e palazzi furono nazionalizzati e molti divennero luoghi di assistenza istituzionale (orfanotrofi, ospedali, case per anzianɜ e disabilɜ, ecc.). Poiché le persone non erano identificabili, i documenti lasciati a Trate testimoniano che furono dati loro nomi come “la Donna mutante”, o “Julka la sordomuta”, e così via.

  • All'interno del castello, un vetro opaco impedisce di vedere il mondo esterno.

Fino al 1970, all’istituto di Trate c’era uno stile di vita più “tradizionale”: le persone, allora chiamate “pazienti”, lavoravano nei campi e nelle stalle. Gli standard sono migliorati con il socialismo, quando lo Stato ha concluso che non si poteva vivere in quelle condizioni, così sono stati introdotti il riscaldamento centrale e i servizi igienici ed è stato assunto del personale infermieristico qualificato. “Le condizioni sanitarie erano disastrose. Lɜ infermierɜ portarono conoscenze all’interno dell’istituto. Anche↓il lavoro nei campi fu abolito perché percepito come sfruttamento. Ma sopravvivere senza lavoro divenne a suo modo più difficile: 350 persone erano ormai intrappolate dentro le mura”, continua la collega Darja. Le stanze testimoniano ancora lo stato dell’istituto poco prima della sua chiusura. Le finestre erano satinate, quindi i pazienti non potevano vedere fuori. Nella sala da pranzo non c’erano né forchette né coltelli. La massa disumanizzata di persone spesso si gettava il cibo addosso e mangiava con le mani.

La mancanza di terapia veniva compensata con pillole, barriere, misure di contenimento e camicie di forza.

Anche lɜ operatorɜ erano in grave difficoltà: di notte circa 80 o addirittura 120 persone erano assistite da unǝ o due care-giver. La mancanza di terapia veniva compensata con pillole, barriere tecniche, misure di contenimento e camicie di forza. Le donne erano particolarmente vulnerabili. Alcune di loro, dopo aver subito abusi prima di entrare nell’istituto, vennero sottoposte a misure di sterilizzazione e contraccezione forzate, aborti e allontanamento dai figli. Le valigie e tutte le cose che erano state sottratte con la forza alle persone venivano lasciate nel castello. Sonja racconta la storia di una paziente che amava aiutare nei campi e non si toglieva mai gli stivali di gomma, nemmeno di notte quando dormiva. Lɜ operatorɜ alla fine accettarono la cosa perché era comunque percepita come “pazza”. Quando morì si scoprì che dentro aveva nascosto del denaro. Era disposta a tutto pur di avere qualcosa di “suo”.

  • Il Museo della follia dà un'idea delle condizioni in cui vivevano i residenti dell'Istituto di Trate

  • Il Museo della follia dà un'idea delle condizioni in cui vivevano i residenti dell'Istituto di Trate.

  • Il Museo della follia dà un'idea delle condizioni in cui vivevano i residenti dell'Istituto di Trate.

Neanche il personale era soddisfatto del modo in cui le persone venivano assistite, racconta Sonja, che insieme aɜ suɜ colleghɜ ha raccolto le testimonianze dellɜ ex dipendenti dell’istituto. La mancanza di igiene e il sovraccarico di lavoro del personale erano particolarmente preoccupanti. Tuttavia, lavoravano duramente e al meglio delle loro capacità, e le attuali critiche all’istituto – così come è oggi – lɜ ferisce. Allo↓stesso tempo, hanno interiorizzato l’idea che quello che hanno fatto fosse il meglio che si potesse fare e, in questo senso, la cosa giusta da fare.

Mentre in molti altri Paesi il processo di deistituzionalizzazione è in corso da tempo, in Slovenia gli istituti sono ancora solidi. Oggi, circa 2.700 persone vivono in istituti speciali e circa settecento in reparti chiusi, come si legge nella Strategia di deistituzionalizzazione, un documento interno del Ministero degli Affari sociali sloveno. La legislazione attuale consente un ulteriore aumento del numero di posti letto, contravvenendo alle linee guida dell’Unione Europea e alla Convenzione internazionale sui diritti delle persone con disabilità.

Ritorno nella società

Con l’aiuto di due finanziamenti europei, le cose hanno iniziato a prendere un’altra direzione. Uno di questi prevede il trasferimento dei residenti dalla struttura istituzionale Dom na Krasu a Dutovlje, nella regione della Primorska – al confine con l’Italia – in case di accoglienza comunitarie. Questo progetto segna l’inizio della fine dell'”istituzione totale” in questa parte della Slovenia. Il cuore del progetto è la promozione e la salvaguardia della dignità e del rispetto di chi è utente dei servizi (adultɜ affettɜ da problemi di salute mentale a lungo termine e adultɜ con disturbi mentali e dello sviluppo). In questa sede, queste persone saranno dotate delle giuste competenze e del supporto necessario per aiutarle a reintegrarsi nella comunità e a vivere nel modo più indipendente possibile, nonostante i loro problemi e le loro sfide. Il progetto, del valore di 2,2 milioni di euro, sarà cofinanziato dal Fondo sociale europeo, con un contributo del Fondo di circa 1,8 milioni di euro.

A Dutovlje, la storia dei ricollocamenti risale all’apertura del primo gruppo residenziale nel 2003. Finora 171↓persone sono state trasferite dagli istituti alle case famiglia, dove vivono in gruppi più piccoli e sono meglio integrate nella comunità locale. Invece di vivere in strutture separate e chiuse, vivono in case famiglia, da sole o in gruppi molto piccoli di persone, decidendo i propri orari, tornando a lavorare, dedicandosi ai propri hobby e, non da ultimo, vivendo la vita familiare e intima di cui sono statɜ privatɜ quando erano in istituto. Nel frattempo, il personale degli istituti (che stanno scomparendo) continua ad aiutarle nei compiti quotidiani che non possono svolgere da solɜ.

"Non ci dovrebbe essere punizione senza reato - ma stiamo criminalizzando il disagio mentale, stiamo eliminando le persone improduttive per tenere pulite le strade"

Urška Sorta Kovač è seduta in giardino sotto a un tiglio, di fronte all’istituto Dom na Krasu, che ogni giorno diventa sempre meno affollato. Lavora qui dal 1996 ed è una delle persone più qualificate del Paese nel suo campo. Nonostante i recenti progressi, sostiene che “la Slovenia è ancora una società molto istituzionalizzata. Non dovrebbe esserci punizione senza un reato – ma stiamo criminalizzando il disagio mentale, stiamo eliminando le persone improduttive per tenere pulite le strade”. Il lento cammino verso la deistituzionalizzazione è solo sintomatico delle scelte passate che ha preso la società slovena. Eppure, sostiene Urška, quando lɜ residenti vengono trasferiti in comunità aperte, le cose cambiano a diversi livelli.

  • Urška lavora all'istituto Dom na Krasu dal 1996.

La vita deɜ residenti delle case famiglia e del personale è diversa da quel momento in poi, dice Urška. Lɜ residenti hanno dimenticato molte cose, dopo il periodo trascorso in istituto: hanno bisogno di tempo per abituarsi al loro nuovo ambiente. Prima di tutto, c’è un periodo di recupero, perché trasferirsi è un’esperienza stressante per ognunǝ. Il personale, invece, deve cambiare radicalmente il proprio modo di pensare: “Non sono solo lɜ residenti a essere istituzionalizzatɜ, ma anche il personale. Devono occuparsi delle persone in modo diverso e molto più intimo, in base alle loro esigenze. È un cambiamento nella routine: i veri bisogni della persona, che sono stati nascosti per anni, vengono a galla”, spiega l’autrice. Questo è ciò che Urška Sorta Kovač fa quotidianamente: aiuta le persone a formulare e raggiungere i loro obiettivi (anche se si tratta solo di andare al cinema), fornendo loro un supporto psicologico per ogni step.

  • All'interno della residenza, lɜ residenti preparano i pasti.

  • All'esterno dell'Istituto Dom na Krasu crescono i fiori e lɜ passanti passeggiano.

A differenza di quanto accadeva in passato, le persone hanno la possibilità di modellare la propria vita quotidiana – e questa, in gran parte, non è diversa da quella delle persone senza disabilità. Joc non è in grado di vivere in una casa con assistenza non istituzionalizzata: se così fosse, questo gli permetterebbe di rientrare nel mondo del lavoro in un periodo di mezza età e di assicurarsi quel reddito più stabile che non ha mai avuto. Le conseguenze di ciò le subisce anche oggi, mentre vive nell’incertezza di dove andrà a dormire domani. “Non si tratta semplicemente di vivere da solɜ o in piccoli gruppi. Si tratta di prendere parte attiva alla propria vita e di avere voce in capitolo nei processi lavorativi”, continua Urška. Uno degli sviluppi più importanti che stanno introducendo è il coinvolgimento dell’utenza, compresa la partecipazione a tutti i gruppi di lavoro, fino alla direzione.

Deistituzionalizzazione e reintegrazione

Anche il dialogo con la comunità è fondamentale per il successo dell’integrazione in un nuovo ambiente, ma non è sempre un percorso facile. Il progetto fondato dall’UE a Dutovlje ha incontrato la resistenza della cittadinanza locale. “Ovviamente c’è paura, ma la questione è quanto aumenta e come si genera l’escalation della paura. L’idea principale del progetto è quella di lavorare su tutti i livelli: utenti, parenti, personale, comunità in generale”, afferma il direttore Goran Blaško, che lavora qui da cinque anni e che ha preso il comando in un momento difficile. Il lavoro è stato particolarmente impegnativo durante l’epidemia di coronavirus, quando era difficile trovare posti per ospitare le persone.

  • Goran Blaško è il responsabile del progetto a Dutovjle. Per lui, il dialogo è la chiave.

Il progetto, con le sue scadenze e i suoi requisiti, ha anche molti limiti. Ha una durata di soli tre anni. Un altro problema importante è il sovraffollamento e la mancanza di spazio, soprattutto per le persone sottoposte a provvedimenti giudiziari. Ci sono stati casi in cui le persone sono state costrette a dormire nel corridoio. “Ma la soluzione non è aumentare la capacità! È necessario un maggiore lavoro di comunità”, continua Urška. La deistituzionalizzazione non finirà quando l’ultima persona uscirà da un istituto chiuso, piuttosto quando la società in generale cambierà la sua percezione di questa parte importante della nostra comunità.

Il successo e la velocità del processo di reintegrazione dipendono da quanto tempo lɜ residenti sono statɜ lontanɜ dalla comunità (la permanenza media negli istituti speciali è di circa 12 anni e mezzo, secondo la Strategia di deistituzionalizzazione) e da chi lɜ sostiene lungo il percorso. Joc ha trascorso più di 15 anni dentro e fuori dagli istituti e “fuori dalla società”, ma quando si tratta di avere un supporto, ha un grande vantaggio. Un libro scritto da Andraž sulla sua vita – intitolato Titov sin, perché Joc ha spesso immaginato di essere il figlio del leader jugoslavo – gli ha dato sostegno e una rete sociale.

Pancakes e basket

Mentre usciamo dall’appartamento di Joc, Andraž ricorda brevemente che un tempo preparava i pancakes per lɜ abitanti dell’istituto di Dutovlje, che ora è in fase di transizione. Una delle persone che vivevano lì non aveva i denti. Non gli era permesso mangiare i pancakes per paura di soffocare. “Avrebbe dato qualsiasi cosa per quel pancake. Era diventato aggressivo perché era l’unico a non poterlo mangiare. Mi sono chiesto cosa fare e ho tagliato il pancake in pezzi molto piccoli”, ricorda. Immediatamente il comportamento e l’atteggiamento dell’uomo sono cambiati. “Gli ho chiesto se potevo preparargliene un altro. Mi ha detto di no, e che ne dovevano rimanere un po’ per gli altri”. Cosa ci dice questo? “Come si diceva a Trieste: la libertà è terapeutica. Dobbiamo aprire le porte degli istituti e permettere una vita indipendente”, sostiene Andraž.

  • Il "figlio di Tito" e il suo amico Andraž.

  • Il "figlio di Tito" e il suo amico Andraž.

Dopo avermi salutata, Andraž e Joc sono andati a prendere un altro caffè. Joc sta preparando un’altra campagna pubblica sull’importanza della deistituzionalizzazione in Slovenia. Continua a lottare ogni giorno e Andraž lo aiuta come può. Ma il fatto è che, sebbene Joc abbia grandi ambizioni, la vita continua e, alla fine della giornata, si preoccupa ancora di dove vivrà, di cosa mangerà e di come andrà a finire la tanto attesa partita di basket.

 

This story is part of the YOUTHopia campaign, a journalistic project shedding new lights on the EU Cohesion Policy.

Connecting the dots

Vesna Švab:

psichiatra e docente alla facoltà di medicina di Lubiana

Deistituzionalizzazione in sospeso, il caso della Slovacchia

Da una decina d’anni, gran parte dei paesi dell’Europa centrale e orientale ha avviato un processo di deistituzionalizzazione dell’assistenza alle persone con disturbi psichiatrici. Tuttavia, non tutti i paesi procedono alla stessa velocità. In Slovacchia il processo sembra essere addirittura a un punto morto, osserva Vesna Švab, psichiatra e docente slovena.

La Slovenia fatica a deistituzionalizzare realmente l’assistenza alla salute mentale. Ma non è l’unico paese dell’Europa centrale ad essere così. In Slovacchia, ad esempio, la situazione è molto simile. Il paese è ufficialmente impegnato nel processo di deistituzionalizzazione da circa dieci anni. Anche la Slovacchia è uno dei paesi ad aver ricevuto fondi europei per sostenere questa transizione. Finora i risultati sono stati scarsi. L’importo è stato utilizzato per portare a norma o rinnovare le strutture esistenti – per cui non si può parlare di deistituzionalizzazione – o per costruire altre strutture più piccole – per cui, di nuovo, non si tratta di deistituzionalizzazione bensì di transistituzionalizzazione. Il termine si riferisce al processo attraverso il quale gruppi di persone la cui assistenza è presumibilmente deistituzionalizzata grazie alle politiche di assistenza comunitaria finiscono per essere trasferite in altri istituti. Possono essere più piccoli o diversi, ma sono comunque istituti. Non si tratta di farli uscire dalle strutture per reintegrarli nella società.

Una situazione che in Slovacchia, come in Slovenia, è denunciata dall’UE, dallɜ utenti e dalle associazioni. Ciò che noi ONG sosteniamo è lo sviluppo e il miglioramento dei servizi e dei programmi di reinserimento sociale basati, ad esempio, sulla riabilitazione professionale, sui posti di lavoro assistiti, sugli alloggi, sui centri di salute mentale comunitari… Chiediamo anche che le persone con disturbi mentali possano rimanere il più possibile a casa e ricevere da lì sostegno o assistenza.

In Slovacchia, le strutture sanitarie dipendono dalle autorità locali e quindi dalle loro decisioni. Questa caratteristica rallenta il processo di smantellamento del sistema sanitario, poiché non tutti i comuni sono favorevoli a tale sviluppo. Inoltre, le ONG che sostengono lo smantellamento sono raramente coinvolte nel processo. Eppure sono proprio queste ONG ad avere le migliori competenze in materia di difesa e rispetto dei diritti umani delle persone affette da disturbi psichiatrici. Oggi, in tutta la Slovacchia, queste piccole organizzazioni sono le uniche a offrire servizi di riabilitazione e reinserimento. In altre parole, a deistituzionalizzare.

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