Blackface, scarsità di rappresentanza, amnesie storiche, stereotipi in TV e nei libri di scuola... Vivere in Italia può essere complicato per una persona nera. A volte è così difficile che alcunɜ preferiscono trasferirsi all'estero. Ma questa partenza non significa la fine della loro lotta contro il razzismo nello Stivale, anzi, spesso è solo l’inizio.
Alessia Reyna è cresciuta in una piccola città italiana con un padre americano afrodiscendente e una madre peruviana. Un’infanzia tutt’altro che idilliaca la sua, a causa della discriminazione subita per il colore della sua pelle. “Ero l’unica persona nera“, dice con voce ferma, “mi mancava così tanto un’idea di rappresentazione che mi ero convinta di essere bianca dentro“. Per alcune persone, il colore della sua pelle le impediva di essere una vera italiana, sebbene in Italia fosse nata.
La costruzione di un'identità
Le persone non bianche sono spesso escluse dalla società italiana, anche se fanno parte della storia del Paese da anni. La loro presenza è stata deliberatamente ignorata nella costruzione dell’identità e dell’immaginario italiano. Per il sociologo Mauro Valeri, questa soppressione della popolazione italiana nera è “una storia ancora da scrivere“. A chi la responsabilità di questo processo? All’ideologia fascista degli anni trenta, che ridefinì la popolazione italiana come ariana e cattolica, e riconsiderò la razza come parte di una struttura ideologica basata sulla superiorità bianca e l’identità nazionale.
A quel tempo, le immagini utilizzate dai media e dalla propaganda erano uno strumento chiave per incarnare l’archetipo della “razza italiana” – e le sue antitesi. Sotto il regime fascista, i corpi e i volti neri erano rappresentati in modo altamente essenzializzato e caricaturale. Ciò permise di trasformare “nozioni di identità e razza incoerenti e vaghe in ontologie concrete ed efficaci“, scrive Lucia Piccioni nel suo saggio Images of black faces in Italian colonialism. Una rivista, “La Difesa della razza”, fu particolarmente prolifica nell’utilizzo delle illustrazioni per costruire le sue teorie razziali. In una copertina del 5 agosto 1938, i profili di un’antica scultura classica sono accostati a un volto caricaturale in terracotta del III secolo a.C. raffigurante un “semita” e alla fotografia di una donna sudanese. Tra il busto classico e gli altri due è posta una spada, a significare la volontà del regime fascista di impedire con la sua politica razziale qualsiasi forma di meticciato.
Questo tipo di propaganda può sembrare una cosa d’altri tempi, ma le sue reminiscenze sono ancora presenti. Quando Reyna era bambina, i media italiani continuavano a diffondere immagini disumanizzanti. Era frequente vedere delle “blackface” – la pratica dellɜ attorɜ non nerɜ di utilizzare il trucco teatrale per scurire la propria pelle – nei programmi televisivi. “Anche le persone non bianche venivano invitate agli show per essere prese in giro“, ricorda Reyna, “e siccome sapevano che il loro ruolo era quello di essere prese in giro, stavano al gioco. Non era colpa loro, ma i media non si rendevano conto delle conseguenze“.
"Quando ero bambina, avevo paura dei media".
Per la donna trentenne, ogni apparizione stereotipata o satirica di una persona nera sul piccolo schermo corrispondeva a una presa in giro il giorno dopo in classe. “Ricordo che tutta la scuola rideva dei miei capelli a causa dell’acconciatura di un’attrice nera“, racconta Reyna, i cui lunghi capelli scuri le cadono dietro le spalle, “avevo paura dei media“.
Un odio verso di sé che parte dall’infanzia
Vivian Iroanya, i cui genitori si sono trasferiti dalla Nigeria a Padova nel 1997, ha sperimentato lo stesso razzismo e la stessa aggressività nei suoi primi anni di vita. Racconta anche che lɜ altrɜ bambinɜ si prendevano gioco dei suoi capelli, del colore della sua pelle e si rifiutavano di giocare con lei. Ma ha anche scoperto che l’assenza di storia italiana nera nei libri di testo scolastici è altrettanto dannosa, soprattutto quando si parla del periodo della colonizzazione. “I programmi scolastici non vanno abbastanza in profondità, non menzionano il numero di persone che sono state uccise o le cose orribili che sono accadute“, dice, “se non insegniamo queste cose, si rischia di gonfiare gli atteggiamenti razzisti che alcunɜ italianɜ poi adottano“.
Oggi questa alterazione visuale continua senza sosta. Nel 2021, gli stereotipi razziali nei libri delle scuole elementari hanno suscitato grande indignazione. In un testo, una vignetta mostra un bambino nero che dice, in un italiano stentato, che il suo proposito per il nuovo anno è quello di imparare bene la lingua. In un altro libro, un ragazzo bianco chiede a una ragazza nera: “Sei nera o sei sporca?“. Per Reyna, il fatto di trovare questo genere di cose in un volume scolastico significa che i bambini si convinceranno che sono cose vere. “Questi libri mi preoccupano per la generazione futura“, aggiunge. “Se per la nostra generazione ‘l’Italia non era ancora abbastanza aperta’, qual è la scusa dell’Italia di oggi?“.
Se vi capitasse di andare a prendere un caffè nel Nord Italia, potreste imbattervi in una bustina di zucchero il cui logo è la caricatura di una giovane donna nera seduta su una montagnetta di zucchero. È scalza, indossa un semplice perizoma e le sue espressioni facciali sono grottescamente esagerate. Un altro marchio utilizza il disegno di un cameriere il cui volto è semplicemente sostituito da un chicco di caffè marrone scuro: una disumanizzazione che lo rappresenta esclusivamente con il prodotto che serve. Sebbene il marchio abbia cambiato il proprio logo, l’immagine compare ancora sui vecchi prodotti derivati e sulle vecchie pubblicità.
I social network sono diventati una manna per le personalità politiche di estrema destra desiderose di propagare la loro “visione” delle persone nere. Nel 2018, Matteo Salvini, il leader politico della Lega noto per le sue posizioni anti-immigratɜ, ha scritto queste parole su Twitter: “Ragazza di 25 anni aggredita giorni fa in stazione a Milano, si è salvata dallo STUPRO usando lo spray al peperoncino. Arrestato oggi lo stupratore. P.s. Non vi posso dire che è un immigrato nigeriano, clandestino e con precedenti penali, sennò mi accusano di RAZZISMO.😁“. Salvini ha dimenticato però di dire che anche la vittima era un’immigrata, che tornava a casa dopo un turno di notte.
Il 31% dellɜ italianɜ dichiara la propria preferenza per una società composta esclusivamente da persone con lo stesso colore della pelle.
Questo tipo di retorica ha l’effetto di rafforzare nella coscienza collettiva il legame tra colore della pelle, immigrazione clandestina e pericolo per l’Italia. Sullo sfondo di una “crisi europea deɜ rifugiatɜ“, queste idee incoraggiano una società che continua a equiparare il bianco all’identità e alla legittimità nazionale e il nero alla minaccia e a una contaminazione. Secondo un sondaggio di Enzo Risso pubblicato sul quotidiano Domani nel gennaio 2023, il 31% degli italiani dichiara “in modo chiaro e inequivocabile la propria preferenza per una società composta esclusivamente da persone della stessa etnia e con lo stesso colore della pelle“. Per Reyna, questo significa essere cresciuta sentendosi “completamente sola” e avendo l’impressione di non sentirsi adatta in alcun posto.
Voci contro il razzismo
Quando Reyna ha raggiunto i vent’anni, ha iniziato ad analizzare quell’odio verso se stessa che aveva covato per anni. “Ho capito subito che il problema in Italia non ero io, ma il sistema“, afferma oggi. La sua prima reazione è stata quella di volare in Giappone. “Ero depressa e mi sono detta: o ti arrendi o fai qualcosa“. In Giappone ha scoperto un luogo in cui non sentiva lo stesso odio che le veniva rivolto nel proprio Paese. Iroanya ha avvertito la stessa mancanza di sostegno in Italia, che l’ha spinta a partire per il Regno Unito. “Volevo fare la giornalista, ma non avevo mai visto una persona nera fare quel lavoro nella TV italiana“, racconta dopo una giornata di lavoro, come redattrice per un media londinese specializzato nel mercato dell’energia. “Quando ho realizzato quanto tutto fosse diverso nel Regno Unito, non potevo crederci“, ricorda.
Dopo l’omicidio di George Floyd da parte di un agente di polizia negli Stati Uniti, Reyna è tornata in Italia, dove si è scontrata con slogan come “tutte le vite contano”. In preda a una profonda frustrazione di fronte a queste reazioni, ha co-fondato il collettivo Black Lives Matter Italia, poi diventato D.E.I Futuro Antirazzista. Uno degli obiettivi di questa organizzazione è documentare la sconvolgente frequenza di episodi di rappresentazione razzista delle persone nere nei media italiani. Le blackface, ad esempio, continuano a essere utilizzate negli sketch, che il gruppo descrive come forme di “razzismo sistemico nella televisione nazionale in un clima di impunità“. Anche per Iroanya, la blackface e altre forme caricaturali nei media si diffondono senza controllo nella società italiana. “Se unɜ bambinɜ vede battute razziste nei media, si entra in un circolo vizioso“, dice, prima di spiegare la sua logica. “ɜ giovani, così, prenderanno il sopravvento e perpetueranno questo comportamento razzista“.
Nel maggio 2023, Reyna e il suo gruppo di attivistɜ hanno messo in evidenza una copertina esplicitamente razzista della rivista Panorama. La prima pagina riportava la scritta “Un’Italia senza italiani” su una cartina del Bel paese piena di volti di persone razzializzate. “Nulla in questa violenza è stato lasciato al caso“, si legge in un post su Instagram di D.E.I Futuro antirazzista, “partendo dalla scelta del colore: rosso per comunicare lo stato d’allarme, con una fantasia quasi invisibile che richiama ai motivi della cultura araba ed infine eccoli lì, i corpi non bianchi che lo stivale riesce a malapena a contenere”. Per Reyna, questa immagine rafforza la convinzione che lɜ italianɜ possano essere solo bianchɜ e cattolicɜ. “Conosco persone che [all’epoca del titolo] si sono sentite terribilmente a disagio, altre si sono imbarazzate e vergognate. Personalmente, ero disgustata e pensavo che il mio Paese ci avesse deluso ancora una volta“, ricorda.
Le rappresentazioni delle persone nere nei media e nell’industria dell’intrattenimento continuano a essere così limitate e stereotipate che nel 2021 l’uscita di una serie Netflix con un cast prevalentemente nero ha fatto notizia a livello internazionale. Zero segue le avventure di un adolescente che scopre di avere la capacità di diventare invisibile – una metafora dell’emarginazione delle persone razzializzate in Italia – e salva il suo quartiere dalla criminalità. “Va oltre la pelle nera. Si tratta di raccontare la storia precisa dell’Italia nel 2021, cosa che i media non fanno. Mostrano l’Italia come era 25 anni fa, mentre il mio obiettivo è raccontare l’Italia di oggi“, ha dichiarato al media statunitense WWD Dikele Distefano, co-autore del programma e del libro “Non ho mai avuto la mia età”, da cui Zero è tratto.
Per Reyna e la sua associazione, denunciare il razzismo endemico nella società italiana è una battaglia costante. “Riceviamo continuamente contestazioni, siamo statɜ denunciatɜ e il nostro sito web è stato chiuso“, spiega la cofondatrice. “Ma continuo a lavorare sodo, voglio sensibilizzare le persone“, racconta dal suo appartamento nel Regno Unito, dove ha deciso di trasferirsi due anni fa. All’interno di D.E.I Futuro Antirazzista lavora con altri 30 membri, partecipando a riunioni e incontri e dedicando talvolta diverse ore al giorno all’organizzazione.
Nel Regno Unito, Iroanya è riuscita a diventare la giornalista che sognava di essere. Ha scritto della sua situazione di “cittadina di seconda classe” in Italia e ha fatto dei lavori investigativi sull’uso della blackface nei media. “Continuerò a occuparmi di italianɜ nerɜ e di questioni sociali, e a fare del mio meglio“, dice.
Alla domanda su un eventuale ritorno in Italia, la risposta di entrambe è chiara. “L’unico motivo per cui tornerò è per incontrare altrɜ attivistɜ, perché voglio impegnarmi con loro, o per una vacanza. Per il resto, assolutamente no“, dice Iroanya. “Assolutamente no“, aggiunge Reyna. “Anche se andassi in una grande città, dove ci sono persone che mi somigliano, che sono nate e cresciute qui, so che non sarei felice”.
Le voci sottorappresentate sono voci travisate
I mezzi di informazione sono progettati per servire il pubblico e riflettere le storie importanti per esso. Ma spesso solo una piccola parte della popolazione è rappresentata nelle redazioni, che sono prevalentemente bianche, con uomini in posizioni dirigenziali. Gli uomini bianchi non sono necessariamente cattivi giornalisti, ma l’omogeneità è un fattore negativo per un settore il cui ruolo è quello di rappresentare la diversità. Dal Covid alla crisi climatica, abbiamo assistito a un’attenzione disomogenea verso la società bianca e ricca, a scapito di tutte le altre.
A Unbias the News, abbiamo trascorso diversi anni a esaminare gli ostacoli alla diversità nei media. Una delle barriere principali è rappresentata dalle molestie. ɜ giornalistɜ nerɜ riferiscono di essere consideratɜ “politicɜ” semplicemente per quello che sono, di aver visto assegnare le loro storie ad altrɜ colleghɜ o di aver subito commenti sgradevoli sul loro aspetto.
Allo stesso tempo, quello che noi chiamiamo un diffuso approccio “estrattivo” nei media continua a minare l’uguaglianza e a riprodurre atteggiamenti colonialisti nei confronti della Maggioranza Globale (un’espressione utilizzata per indicare l’insieme delle “minoranze” che rappresentano il 95% della popolazione mondiale, ndr). Ad esempio, le persone provenienti da Paesi con un PIL inferiore ricevono meno soldi per lavorare sullo stesso argomento nello stesso media, anche se le aspettative di lavoro sono le stesse. Inoltre, ɜ giornalistɜ bianchɜ a volte presentano come propri articoli che hanno richiesto un notevole impegno da parte di colleghɜ nerɜ, prendendosi così il merito del lavoro altrui e negando loro i titoli e i riconoscimenti professionali che ne derivano. Come ha scritto la mia collega Wafaa Albadry: “Anche se abbiamo più conoscenze, di noi non ci si fida“.
È improbabile che questa dinamica cambi finché il potere rimarrà concentrato nelle mani di pochɜ, ɜ giornalisti custodiranno gelosamente i loro titoli e le prepotenze, o i commenti razzisti nelle redazioni resteranno impuniti.
C’è però qualche piccola buona notizia. In primo luogo, sempre più giornalistɜ si rendono conto di dover collaborare per raccontare le diverse crisi che interessano il loro pubblico, e la collaborazione non va d’accordo con l’accaparramento dei meriti e delle luci dei riflettori. In secondo luogo, ci sono media indipendenti che stanno cercando di scuotere le dinamiche tradizionali, assumendo persone che raccontino le realtà delle loro comunità e dando priorità alla diversità nelle loro redazioni. Questi sforzi meritano di essere sostenuti e ampliati. Infine, il pubblico chiede una maggiore diversità nel consumo di informazioni, perché è stanco di sentire punti di vista simili sugli stessi argomenti per tutto il giorno. Questo permette alle voci che sono state sepolte in passato di tornare alla ribalta.
Tuttavia, siamo ben lontanɜ dal raggiungere uno status quo di uguaglianza, diversità e rispetto in una redazione standard, e questo dovrebbe preoccupare tuttɜ quantɜ. In un clima di polarizzazione, il fatto che le persone vedano la propria comunità continuamente denigrata e mal rappresentata non fa che aumentare la sfiducia nei confronti dei media. Questa situazione può cambiare solo se i media si sforzano di riflettere accuratamente il loro pubblico, in tutta la sua diversità, e di esaminare le questioni attraverso i diversi prismi che le nostre società adottano, ma che i nostri media catturano troppo raramente.