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La comunità russofona lettone è sospesa tra due mondi

29/07/2022

Journalist:

Simone Benazzo

Photographer:

Marco Carlone

Dallo scoppio della guerra in Ucraina, nella capitale della Lettonia un vecchio memoriale sovietico è diventato simbolo di una divisione generazionale, etnica e culturale che coinvolge un paese intero. E la volontà del Parlamento di demolire questo monumento ha tracciato un solco ancora più profondo tra i cittadini lettoni e la numerosa comunità russa.

Riga, capitale della Lettonia. È il 9 maggio e il “Memoriale per la liberazione della Lettonia da parte dei sovietici” si staglia di fronte a una folla commossa. Di fronte, ma a quasi cinquanta metri di distanza. Tutta l’area è stata transennata, ci sono decine di poliziotti e camionette antisommossa: all’obelisco non ci si può avvicinare. Centinaia di persone, però, si accalcano alle transenne, in mano hanno dei fiori. Uno ad uno, quasi in processione, consegnano mesti il loro fiore a degli addetti con la pettorina fluorescente, che poi si alzano, danno loro le spalle e depositano meccanicamente l’omaggio ai piedi del monumento. 

Sono vestiti di nero, hanno la mascherina nera, gli occhiali neri, il cappellino nero. Impassibili e quasi annoiati, sembrano robot. Il contrasto con la commozione della folla è surreale. Le persone sono tantissime, i giornali diranno ventimila. Sono accorse qui come ogni anno, ma questa è la prima volta che il monumento non lo possono toccare, solo venerare a debita distanza. 

“Ho emozioni contrastanti, non so bene cosa pensare rispetto a questo divieto. In generale, credo però che le autorità abbiano avuto una reazione troppo severa”, dice Artūrs mentre raggiunge con passo deciso la scrivania. Camicia bianca e aspetto ordinato, Artūrs è un giornalista di TVNET, uno dei principali media del paese. Lui e la sua famiglia appartengono alla minoranza russofona del paese, esattamente come le centinaia di persone che si sono radunate davanti al memoriale. È per questa comunità che quel memoriale è così speciale. 

E lo si capisce dalle reazioni della gente affollata davanti al monumento. Alcune persone anziane, elegantissime, si inginocchiano, abbracciano degli amici giunti sul posto, qualcuno si commuove, altri rilasciano interviste dai toni piccati e sconsolati alle tante telecamere accorse per documentare l’evento. 

  • Un’anziana signora porta dei garofani al memoriale. © Marco Carlone

  • I fiori vengono consegnati agli addetti, che li posizionano poi ai piedi del monumento. © Marco Carlone

  • Molte persone, prima di consegnare i fiori agli addetti, si fanno scattare una foto ricordo. © Marco Carlone

  • A fine giornata, un tappeto di fiori ricoprirà quasi interamente la zona transennata davanti al memoriale. © Marco Carlone

La mattina successiva, i fiori lasciati da queste persone verranno rimossi da un bulldozer, spazzati via come spazzatura. Molte delle persone presenti il giorno prima leggeranno questo gesto come un affronto, da parte delle autorità che già avevano invitato i cittadini a non manifestare. Si scateneranno ondate di sdegno, rabbia, panico. E allora, in serata, al monumento, accorreranno ancora più persone, si assieperanno e intoneranno canti sovietici, ci saranno scontri con la polizia. Qualcuno verrà arrestato. 

Il dito di Mosca

In Lettonia le epoche storiche sembrano fondersi. Non tutti vivono, o vogliono vivere, nello stesso periodo. A Riga, man mano che ci si allontana dall’elegante centro, così visibilmente legato al periodo della lega anseatica, le guglie e i mattoni rossi vengono sostituiti da palazzoni squadrati e di cemento. Oltrepassato il fiume Daugava, la lingua predominante diventa il russo. 

Da questo lato del fiume si trova anche il monumento della discordia. Il suo nome ufficiale è “Memoriale per la liberazione della Lettonia da parte dei sovietici”. I locali gli hanno però affibbiato un altro nomignolo, più appropriato secondo loro: Maskavas pirksts, il “dito di Mosca”. È stato costruito nel 1985 per celebrare la vittoria in quella che nelle quindici repubbliche che componevano l’Unione sovietica non si chiamava “Seconda guerra mondiale”, bensì “Grande guerra patriottica”. E la Grande guerra patriottica, costata la vita a più di 26 milioni di cittadini sovietici, terminò in una data precisa: il 9 maggio 1945, che i propagandisti trasformarono in una sorta di Pasqua comunista, l’occasione per far sfilare il meglio dell’Armata rossa, rinsaldare la fede patriottica nella lotta di classe, legittimarsi, in patria e all’estero, come liberatori dei popoli oppressi.

L’Urss è collassata trentuno anni fa, ma i suoi simboli le sono sopravvissuti. Oggi, nella Russia post-sovietica e putiniana, il 9 maggio è la ricorrenza in cui si glorifica la grandeur russa, la volontà di potenza dello stato più grande al mondo.

Così celebrare la Russia e la sua storia significa adesso avallare tacitamente l’espansionismo del Cremlino, supportare quella politica imperialista che ha trovato la sua espressione più compiuta il 24 febbraio, quando i tank russi hanno varcato il confine ucraino.

Questa, almeno, la visione del Saeima, il parlamento lettone, che l’8 aprile scorso ha approvato una legge lampo per rendere il 9 maggio la “Giornata per commemorare le vittime morte in Ucraina”. Non solo: la legge proibiva, anche, “qualunque altra celebrazione” in quella data, un eufemismo che tutti hanno compreso: niente celebrazioni della vittoria sovietica nella Seconda guerra mondiale quest’anno. Anche la polizia lo ha sottolineato, avvertendo di non recarsi al monumento il 9 maggio: “tale atto potrebbe essere visto come un sostegno all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e alla sua interpretazione revisionista neo-stalinista della storia”, si legge su un comunicato. É per questo motivo che i fiori lasciati dalla folla russofona (e russofila) sono stati rimossi con così tanta solerzia. 

  • Uno dei tanti palazzi di Imanta, un quartiere periferico che si trova oltre la Daugava, sviluppatosi soprattutto durante il periodo sovietico. 3- In quartieri come Imanta, il paesaggio urbano è occupato quasi completamente da palazzoni sovietici. © Marco Carlone

  • Come la maggior parte degli abitanti nel quartiere di Iļģuciems, anche Artūrs vive in uno dei tanti palazzi costruiti durante l’epoca sovietica. © Marco Carlone

“Mi azzardo a dire di non aver mai visto nulla di simile. Il Giorno della Vittoria è stato vissuto dalla comunità russofona come una questione di sopravvivenza. Quando hanno visto i bulldozer rimuovere i fiori, si sono mobilitati e ne hanno portati molti di più. Si sono sentiti minacciati nella loro esistenza. Per loro non è stata un’azione contro la Russia, ma contro di loro: ora tocca ai fiori, poi toccherà a noi, ci obbligheranno a emigrare in Russia”, dice Artūrs.

Secondo i dati e le definizioni ufficiali, in Lettonia un cittadino su quattro è “etnicamente russo”. In tutto si parla di circa  460 mila persone. 

In quello che oggi è territorio lettone i russi sono presenti da un millennio circa. Quando il giorno di Natale del 1991 l’Unione sovietica collassò di colpo, queste persone si svegliarono in un altro mondo. Da maggioranza si scoprirono minoranza; da dominatori divennero emarginati; da eredi dei gloriosi liberatori che piegarono la Germania nazista vennero percepiti come eredi dell’odiato occupante sovietico.

“Il governi lettoni, al posto di propagandare un'idea sostenibile di identità nazionale, hanno usato e abusato il trauma storico vissuto
dai lettoni durante l’Urss”.

Ritrovata l’indipendenza, i governi della Lettonia post-sovietica scelsero così di non garantire piena cittadinanza alla maggioranza delle persone di etnia russa; si iniziò a parlare di “nepilsoņi”, letteralmente “non cittadini”. Così, anche a causa di queste politiche discriminatorie, migliaia di russi etnici rimasero coi piedi in Lettonia, ma con il cuore e gli occhi rivolti verso la Russia, una madrepatria benigna e immaginata dove molti di loro non avevano mai messo piede se non durante qualche vacanza. 

“La mia critica principale ai governi lettoni è che, al posto di propagandare un’idea sostenibile di identità nazionale, hanno usato e abusato il trauma storico vissuto dai lettoni durante l’Urss. Mentre io credo che sia importante ricordare questo trauma, ma anche lavorarci: non limitarsi a riaprire la ferita e spargersi del sale, ma cercare di curarla,” commenta Deniss Hanovs, antropologo culturale e professore all’Accademia di belle arti delle Lettonia.

“Ho scelto di essere lettone”

Artūrs è nato e cresciuto a Riga, come i suoi genitori. Hanno sempre vissuto nello stesso quartiere, Iļģuciems, costruito in epoca sovietica, come ricordano gli abituali palazzoni dormitorio a sette piani che dominano lo sguardo.  

Da Iļģuciems il centro di Riga dista circa 5 km, lo si raggiunge in 25 minuti di autobus. Eppure, quando deve andare in centro, la madre di Artūrs dice: dobbiamo andare in città. “Per molti russofoni”, racconta Artūrs con un sorriso, “il centro città è lettone, un altro mondo”. 

A Iļģuciems la lingua veicolare il russo. È quella la lingua in cui si chiedono i caffè, le indicazioni stradali e l’ora. Nel quartiere ci sono tre scuole dove si insegna in russo, solo una dove si utilizza il lettone. Il padre di Artūrs e sua nonna comprendono il lettone, ma non lo parlano. Come la maggior parte dei suoi amici d’infanzia, parlano esclusivamente russo. 

“Non devi mai lasciare il tuo quartiere, dove pensi di avere tutto il necessario: negozi, amici, qualche pub. Quando proprio devi andare in centro per qualche commissione, sai che comunque con il russo riuscirai a cavartela”. 

Invece, Artūrs il lettone lo scrive e parla correttamente. Ma non è accaduto per caso. “Dopo le superiori pensavo di andare all’estero per l’università, esattamente per questo motivo: non sapevo il lettone”, ci spiega, “certo, a scuola lo studiavo quattro, cinque volte a settimana, ma fuori dalla classe non mi capitava quasi mai di doverlo usare. Sono rimasto qui perché me l’ha chiesto mia madre, così mi sono iscritto alla Riga Stradins University, dove corsi ed esami sono in lettone. Ho vissuto tutta la vita a Riga, ma ho imparato il lettone solo a 19 anni, all’università”.

  • Come la maggior parte degli abitanti nel quartiere di Iļģuciems, anche Artūrs vive in uno dei tanti palazzi costruiti durante l’epoca sovietica. © Marco Carlone

  • Artūrs prende il bus per andare a lavorare in centro a Riga tutti i giorni, proprio sotto la casa di famiglia. © Marco Carlone

Nell’Europa post-comunista, quei processi di nation-building di cui oggi in Europa occidentale non si vedono più nemmeno le tracce sono ancora in corso. E sono processi lenti, contestati, tumultuosi. Qui, all’Estremo Oriente dell’Unione europea, le persone non ereditano quasi mai un’identità, ma la scelgono, la plasmano, la rivendicano come propria. È una scelta arbitraria, una scelta politica. 

“Ho scelto di sentirmi lettone proprio perché non volevo sentirmi russo”

La mamma di Artūrs è per metà azera e per metà russa, ma ha scelto la seconda metà. Il papà è per metà bielorusso e per metà russo, e anche lui ha scelto la seconda metà. In qualche angolo del patrimonio genetico, forse, ci potrebbero essere delle ascendenze ebraiche, sottolinea Artūrs. Lui, però, ha deciso di essere, o meglio di diventare, lettone. “Ho scelto di sentirmi lettone proprio perché non volevo sentirmi russo”. 

“Dirsi russo, da noi, non significa soltanto parlare russo e amare la cultura russa. È qualcosa di più: significa condividere valori russi. E io non li condivido”, afferma risoluto. “Molti russi cresciuti in Russia crescono nella convinzione di appartenere a un paese glorioso, il migliore di tutti. Per loro esistono i russi, gli americani, i cinesi e poi gli altri. Questo è sciovinismo. Io mi oppongo. Mi definirei innanzitutto un cosmopolita, ma, se mi obbligano a scegliere, sono lettone”, sancisce.  

Questa posizione ha scavato una sorta di solco invisibile tra lui e la sua famiglia. Continuano a vivere assieme, e anche a discutere. Ma abitano mondi sempre piú distanti, specialmente dopo il 24 febbraio scorso. “Fin da bambino, mio papà mi faceva vedere il telegiornale della televisione pubblica russa, ogni sera, su “Pervyjj kanal”, il primo canale della tv russa. Era come una ricorrenza religiosa”, racconta.  

  • La sede di TVNET, il canale televisivo dove lavora Artūrs si trova in un moderno edificio in pieno centro, di fronte ai binari della stazione ferroviaria di Riga. © Marco Carlone

Infatti, per il padre di Artūrs e per migliaia di suoi concittadini “etnicamente russi” e spesso nemmeno ufficialmente lettoni, la storia è diversa. Sia la loro storia personale che quella dello scorso secolo. 

“Dalla fine degli anni ‘90, all’aumentare della distanza tra la minoranza russofona e la maggioranza lettone, è iniziata anche una specifica politica della memoria”, riprende Deniss Hanovs. “Così il Memoriale per la liberazione della Lettonia da parte dei sovietici è diventato un luogo di identità, un luogo di memoria”.   

Da studioso di processi di identificazione collettiva, Deniss ha gli strumenti per decodificare il profondo significato politico di quel lieu de mémoire così contestato e controverso. Per molti russi di Lettonia, scegliere di ritrovarsi al monumento, fondendo la propria memoria privata con una memoria collettiva trasversale, è un atto politico. Il cordoglio del singolo diviene il cordoglio di una comunità, rinnova i legami che tengono unita una minoranza in gran parte emarginata. 

Se a prima vista questa comunione della sofferenza potrebbe sembrare un atto per sentirsi parte di una comunità, con la guerra in corso assume per alcuni la forma di un appoggio all’attuale politica estera Russia. “Più persone si radunano lì e non commemorano i propri morti in forma privata, più è facile per il Cremlino manipolare il senso ultimo di questo luogo. Sono anni che Putin strumentalizza la memoria della Grande guerra patriottica, così come quella dei caduti al fronte: ha rubato le memorie tragiche delle persone. Nel contesto attuale quel monumento è un gasdotto che pompa propaganda putiniana”, sintetizza l’antropologo.   

  • Deniss Hanovs di fronte all’Accademia delle Belle Arti della Lettonia, dove lavora come docente. © Marco Carlone

Anche Artūrs si è trovato spesso a interrogarsi sulla fusione di memorie private e memorie collettive, sulla sua capacità di confondere i significati, sovrapponendo in modo impercettibile le guerre di ieri a quelle di oggi. Anche nella sua famiglia, infatti, il 9 maggio è sempre stata una data divisiva: mentre i genitori hanno sempre insistito per celebrarlo come la gran parte dei russofoni lettoni, davanti al memoriale, negli anni lui ha maturato l’esigenza di una commemorazione più intima, meno legata alle strumentalizzazioni del presente. “Poco tempo fa, ho chiesto a mio padre: perché, in occasione del Giorno della Vittoria, non abbiamo mai portato fiori sulla tomba della bisnonna, che sopravvisse all’assedio di Leningrado? Lui ha nicchiato. Mi ha detto: perché di solito ci andiamo a Pasqua” racconta. “Ho insistito: credi che portare fiori su quella tomba e non al monumento equivalga a dire che non siamo contro il nazifascismo? Che disonoriamo chi l’ha combattuto e sconfitto? Non ha saputo rispondermi”. 

Dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina è diventato improvvisamente più facile immaginare cosa si nascondesse dietro questi silenzi. 

Come notato da più osservatori, è proprio sulla narrazione mistificata dell’Ucraina come una terra di nazisti che si impernia la campagna propagandistica con cui la cerchia putiniana ha giustificato l’invasione. Guardando a quanto è avvenuto in Lettonia, questa campagna non pare una trovata improvvisata varata in fretta e furia per fare una patina di legittimità a un intervento militare deciso in fretta e furia, bensì un’operazione studiata a tavolino, che viene da lontano. In una sfera mediatica parallela, spesso deliberatamente ignorata dai media mainstream dell’Europa occidentale, l’allarme per una supposta “minaccia nazista” che starebbe prendendo piede nei paesi a ovest della Russia è stata una menzogna coltivata con cura. Un reportage alla volta, un servizio alla volta. Il messaggio è riuscito a fare presa anche fuori dalla Russia, soprattutto sulle generazioni più anziane, immerse nelle nostalgie post-sovietiche.       

Fin dallo scoppio delle ostilità, la LSM – l’emittente radiotelevisiva nazionale lettone – ha monitorato con dei sondaggi la risposta dei cittadini alla guerra in Ucraina. L’ultimo sondaggio, pubblicato il 7 luglio, mostrava che solo il 40% dei cittadini russofoni lettoni condannava la guerra, il 12% la supportava, il 29% aveva un sentimento neutrale mentre il 19% non voleva rispondere alla domanda. Nello stesso sondaggio, veniva domandato ai partecipanti che tipo di sentimento legavano alla ricorrenza del 9 maggio. Il 3% dei lettoni ha risposto affermando di provare emozioni positive al riguardo. Una percentuale che schizza al 62% tra gli appartenenti alla comunità russofona.

  • Il centro di Riga è oggi pieno di bandiere, simboli e riferimenti che esprimono un sostegno all’Ucraina, come questo maxi schermo davanti alla facoltà di economia dell’Università della Lettonia. © Marco Carlone

  • Capita spesso di trovare le bandiere ucraine di fianco a quelle lettoni anche di fronte agli edifici istituzionali. © Marco Carlone

  • Anche i vecchi tram che corrono per le vie del centro portano livree speciali per la situazione attuale. © Marco Carlone

  • Nei quartieri periferici, abitati perlopiù da cittadini russofoni, è possibile vedere bandiere giallo-blu ai balconi delle case private. © Marco Carlone

È così che la guerra ha portato a ebollizione un conflitto intergenerazionale rimasto a sobbollire per tre decenni. “Mia mamma è stata rapita dalla propaganda di Putin. Ricordo benissimo il 24 febbraio. La chiamai, parlammo dell’invasione e, una volta attaccato, le inviai alcuni articoli in russo di giornali europei. Come la BBC o Deutsche Welle. Feci del mio meglio per trovarle delle fonti in russo, che potesse leggere. La volta successiva che ci chiamammo, lei mi disse che aveva cancellato tutti questi link senza aprirli. Ne era molto fiera. Ma non è stata lei a cancellarli, è stato Putin”, racconta sconsolato Deniss. “Anche molti miei amici e colleghi hanno “perso” i propri genitori nella guerra con Putin. Perso, in senso simbolico. Abbiamo ammesso che non riusciamo più a dialogare coi nostri genitori”, chiosa laconico. 

In questo quadro poco confortante Deniss vede però anche un bagliore di ottimismo, un elemento da cui ripartire per ricreare un tessuto sociale coeso anche in Lettonia, nonostante le lacerazioni profonde che dividono le diverse comunità. “La guerra ha chiarito a tutti come la comunità russofona non sia un gruppo solido e monolitico, come alcuni politici lettoni immaginavano.”

Russi che temono la Russia

Se a molti dei russi che abitano in Lettonia piacerebbe vivere in Russia, c’è anche chi ha una visione completamente opposta. Tra di loro, Evgenija, regista teatrale nata e cresciuta  Mosca. In Russia ha lavorato anche per alcune istituzioni statali, ma poi nel 2015, dopo l’invasione della Crimea, si è rifugiata qui. “La perestrojka è stato il periodo più bello della mia vita, sembravamo destinati a diventare un paese normale. Ma ho vissuto sotto l’Urss e so riconoscere i segnali. Dopo il 2014, l’Urss stava tornando e io non volevo più riviverla. Avevo già connessioni qui, emigrare è stata una scelta naturale”, spiega. I suoi quattro nipoti sono in Russia, le sue sorelle cercano di farli uscire il meno possibile, per paura che vengano costretti ad arruolarsi. Dopo quasi sette anni a Riga, Evgenija si sente a casa, anche grazie al supporto offerto dai suoi colleghi. “Ora ho più numeri lettoni che russi in rubrica,” ci confida. 

È quasi restia a parlare del 9 maggio, del memoriale, delle tensioni tra lettoni e minoranza russofona. Lei vorrebbe solo fare il proprio lavoro, in un paese straniero che le permette di farlo. Ma le inquietudini sono molte. “Io cerco di lavorare con attori e attrici di nazionalità diverse: russi, ucraini, lettoni, lituani, bielorussi. Ma le persone verranno ancora a vedere degli spettacoli in russo, lavori di autori russi adesso?”, si chiede titubante.  

Per lei e i suoi colleghi, una nuova generazione di dissidenti costretti ad abbandonare il proprio paese, rifarsi una vita all’estero non è semplice. “Una mia amica ha lasciato Mosca per scappare in Europa dopo che le hanno dipinto la Z sulla porta di casa. Aveva lavorato anni a Vienna, venendo pagata in euro, aveva messo da parte dei soldi e contava di vivere di quei risparmi. Una volta espatriata, ha scoperto che i suoi conti erano stati congelati. Non aveva un centesimo”. 

Usciamo dal café ed Evgenija si accende una sigaretta. L’ultima frase che dice è: “Come cittadina russa, mi sento in colpa, sento che in qualche modo anche io sono responsabile”. Si gira e se ne va, prima che possiamo rispondere qualcosa di sensato. 

  • Evgenija di fronte a un bar del centro, a poche centinaia di metri dal teatro in cui lavora abitualmente. © Marco Carlone

Epilogo

Due giorni dopo il “Giorno della Vittoria”, l’11 maggio, su un portale di donazioni verrà avviato un crowdfunding per demolire il monumento. In mezza giornata, migliaia di lettoni donano 39.000 €. Il 12 maggio, il parlamento della Lettonia approverà in tempi rapidissimi un emendamento alla legge che fino ad allora, a causa di un accordo internazionale, impediva la demolizione di questo monumento controverso. 

Questa la storia di come un obelisco di cemento degli anni ‘80 sia diventato il simbolo che ha diviso un intero paese, a quasi 40 anni dalla sua costruzione, per una guerra che – all’epoca – neanche si poteva immaginare.

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