Scienziatɜ, attivistɜ e lavoratorɜ della baia di Cadice, nel sud della Spagna, sostengono di aver trovato un unico rimedio per rilanciare l'economia locale, prevenire l'innalzamento del livello del mare e proteggere gli uccelli migratori: riportare in vita le saline. Tuttavia, tra le insidie economiche, le influenze della politica e il nuovo mercato del “carbonio blu”, ravvivare questa tradizione artigianale è una notevole sfida.
L’acqua del mare è piacevolmente calda. Eva María Añino Pedreño strofina i fiocchi di sale con la punta delle dita. Un sorriso compiaciuto compare sulle sue labbra. Raccogliendo il suo fior di sale dal “tajo” – il tradizionale nome dato agli stagni dove si cristallizza il sale marino – questa ex educatrice ambientale ha superato suo padre.
Nato dopo gli anni ’30, il padre di Eva imparò fin da piccolo il mestiere di raccoglitore di sale, come era consuetudine fare nella baia di Cadice, una città andalusa affacciata sull’Atlantico, in Spagna. A nove anni circa, era diventato una “hormiguilla“, una “formichina”, incaricato di portare i pesanti secchi di sale sugli asini fino ai mercati. A sua volta, anche suo padre – il nonno di Eva – era stato un lavoratore del sale, ma per tutto il corso della sua vita. Il padre di Eva, invece, nacque troppo tardi per diventare un salinero adulto: negli anni Cinquanta, la crescente popolarità del frigorifero, novità di quel periodo, aveva portato a una rapida diminuzione del valore del sale, che fino ad allora era un elemento domestico essenziale per la conservazione degli alimenti. La famiglia, così, cambiò mestiere. “Abbiamo saltato una generazione“, dice Eva. Insieme alla sua socia Iryna Lavrentieva, si sta occupando della creazione di una propria impresa nella salina di La Esperanza, recentemente restaurata.
La scomparsa
Alle spalle di Iryna ed Eva, il parco naturale della baia di Cadice si apre sull’Oceano Atlantico come una distesa bassa, umida e ventosa, che lascia appena intravedere sullo sfondo un profilo urbano. Si tratta della più grande palude salmastra nel Paese, protetta da numerose legislazioni internazionali, e inserita nella rete di aree sottoposte alla conservazione della biodiversità “Natura 2000” dell’UE. La maggior parte dei 10.500 ettari del parco è costituita dalle saline, che segnano una fluida terra di nessuno tra il mare aperto e le città industriali della baia.
Per lungo tempo sono state ignorate perché sporche e maleodoranti, ma il loro abbandono ha suscitato un crescente allarme, dal momento che lɜ scienziatɜ ne hanno sottolineato il ruolo cruciale per mitigare gli impatti della crisi climatica. Questi ecosistemi formano infatti barriere naturali contro l’innalzamento del livello del mare: una difesa fondamentale contro le future inondazioni. Inoltre, le paludi costiere fungono da potenti serbatoi di carbonio, assorbendo l’anidride carbonica dieci volte più velocemente delle foreste pluviali mature.
Tra il 2000 e il 2019, secondo una ricerca della NASA, ogni ora è andata perduta un'area grande come due campi da calcio.
Ma le zone umide sono gravemente minacciate in tutto il mondo: dal 1900, il 71% della loro superficie è scomparso a causa dell’urbanizzazione, dell’innalzamento del livello del mare e dell’erosione. Tra il 2000 e il 2019, ogni ora è andata perduta un’area grande come due campi da calcio, ha rivelato una ricerca della NASA. A Cadice, oltre l’80% delle saline è in stato di abbandono. La loro scomparsa rischia di andare di pari passo con quella della lavorazione locale del sale.
Per preservare la biodiversità e il patrimonio culturale delle saline, sono nati progetti locali di ripristino in tutta la regione mediterranea e atlantica. Nella baia di Cadice, tra l’altro, un progetto finanziato dall’università ha ripristinato la salina di La Esperanza, un tempo abbandonata. Qui, artigianɜ, nuovɜ imprenditorɜ come Eva e Iryna e ricercatorɜ universitarɜ collaborano all’elaborazione di prodotti competitivi sul mercato, monitorando al contempo l’avifauna locale.
L’amore per la natura e il desiderio di riconnettersi con il patrimonio salino locale hanno spinto le due donne a partecipare ad alcuni corsi introduttivi organizzati dall’Università di Cadice per conoscere le pratiche di restauro. “E ora ci siamo innamorate di questo posto“, dice Eva. Il vento dell’est, che contribuisce al processo di evaporazione dell’acqua di mare, scompiglia la sua chioma di capelli sciolti. Iryna annuisce e ridacchia: “Ne abbiamo fatte un sacco di foto a questo spettacolo”, afferma scorrendo la sua cartella delle immagini, piena di scatti del sole al tramonto riflesso sulle saline, “ma non riusciamo a smettere di farne ancora e ancora”.
Il sale della terra
A 10 minuti di auto dalla piccola città costiera di Puerto Real, La Esperanza accoglie i visitatori con un portale bianco, alto e solitario in mezzo alla baia. L’ingresso richiama l’importanza che la produzione di sale aveva un tempo nella provincia, divenuta oggi una delle aree con il più alto tasso di disoccupazione in Europa.
Al suo apice, la baia esportava circa 300.000 tonnellate di sale all'anno.
Tradizione millenaria ereditata dai Romani, alla fine del XIX° secolo più della metà delle paludi della baia di Cadice erano state trasformate in saline, che fiancheggiavano la costa con le loro piramidi di minerale scintillante. “Mia nonna è nata vicino a uno di questi estuari. Cadice era una terra di miniere di sale, fa parte della nostra memoria collettiva, radicata nell’identità della città“, ricorda Eva, impugnando la sua “vara“, un lungo strumento di legno per raschiare lo strato di sale che l’acqua, evaporando, lascia nei cristallizzatori. Al suo apice, la Baia esportava circa 300.000 tonnellate di sale all’anno – il 20% della produzione nazionale spagnola – soprattutto verso il Nord Europa e l’America. Tuttavia, nei decenni successivi si registrò un rapido calo.
Un secolo dopo, le coste spagnole – compresi i tratti paludosi – vennero investite dal boom dell’edilizia urbana, che arricchì le élite politiche e soddisfece la crescente domanda della classe media di vacanze al mare. Nel 1988, dopo decenni di richieste da parte dellɜ attivistɜ ambientalistɜ di tutto il Paese, venne promulgata la nuova legge costiera, che dichiarava le terre paludose parte del dominio pubblico marittimo-terrestre. Da quel momento, il loro uso sarebbe stato regolato da un regime di concessioni pubbliche. Un anno dopo venne fondato il Parco Naturale della Baia di Cadice. Secondo l’attivista locale Juan Clavero, della ONG ecologista Ecologistas en Acción, questo ha impedito la distruzione irreversibile delle saline, minacciate dal cemento. Ma il deterioramento di questi ambienti non è stato fermato. Lasciati a loro stessi, si sono prosciugati: l’acqua è rifluita nell’oceano o ha tracimato dai bacini, le cui pareti stavano crollando, spiega Clavero.
Intere famiglie, tra cui quella di Eva, hanno perso i loro introiti legati al sale. Alcunɜ proprietarɜ di saline si sono adattatɜ convertendosi a un raccolto industriale e meccanico. Più della metà ha puntato sull’acquacoltura, provocando ancora una volta un mutamento nel paesaggio, mentre moltɜ dipendenti delle saline sono andatɜ a lavorare nei cantieri navali. Secondo i dati forniti dal servizio di demarcazione costiera andaluso-atlantica, oggi nella baia sono registrate 134 saline, per una superficie totale di quasi 5.000 ettari. Seduto negli uffici del Parco Naturale della Baia di Cadice, il presidente del consiglio direttivo del parco e ricercatore climatico dell’Università di Cadice (UCA) Javier Benavente precisa: “Circa 5 saline sono dedicate alla produzione di sale, 30 all’acquacoltura mentre circa 90-100 sono abbandonate“. Nelle paludi, molti mulini e tradizionali case del sale giacciono in rovina.
Una nuova speranza
Il restauro di La Esperanza è iniziato nei primi anni 2000, quando Alejandro Pérez, ricercatore di biologia presso l’UCA, è arrivato nella baia per studiare come gli habitat delle saline influenzano gli uccelli di terra. Da allora non se n’è più andato: questo loquace appassionato di ornitologia è ora direttore dei Servizi centrali di ricerca dell’Università, situati proprio nella salina di La Esperanza.
All’interno della salina, pannelli di legno avvertono i visitatori di fare attenzione a dove mettono i piedi: “Stiamo allevando. Per favore, non attraversare”. “Qui lavoriamo in simbiosi con la natura, aspettiamo che gli uccelli nidifichino per raccogliere il sale“, spiega Alejandro con un sorriso orgoglioso. Nella sua ricerca, il biologo ha scoperto che la conversione degli habitat palustri in saline artigianali può dare risultati positivi, migliorando la biodiversità e salvaguardando le specie di uccelli in pericolo nella baia. Alcune specie, come il fratino eurasiatico, noto in spagnolo come “chorlitejo patinegro“, si affidano alle saline mantenute per la riproduzione, ci dice Alejandro mentre procede silenziosamente su un sentiero. Intimandoci di stare in silenzio, fa cenno di seguire i suoi passi per non disturbare i chorlitejos. Questi piccoli e veloci uccelli sono difficili da individuare, così come lo sono le uova che depongono nelle zone fangose, mimetizzate tra le pietre.
La salina mantenuta dall’Università è uno spazio di riproduzione sia per gli uccelli migratori che per quelli endemici. “In 30 anni siamo passati da 5 a una media di 150 nidi di chorlitejos patinegros“, racconta Alejandro, riparandosi gli occhi dal sole con la mano mentre guarda la palude. “In totale, abbiamo 400 nidi di quattro specie diverse“. In tutto il parco naturale sono state contate più di 20.000 specie di uccelli.
Questi risultati sono stati raggiunti con un duro lavoro e con una spesa ingente. “Abbiamo dovuto sistemare tutto: le ex case dei salinari, la grande porta d’ingresso, i canali, il muro di cinta… In totale abbiamo pagato circa 100.000 €“, spiega il ricercatore. Il Ministero dell’Agricoltura, dell’Alimentazione e dell’Ambiente ha investito altri 480.000 € per la ricostruzione, ma le spese non sono finite una volta terminato il restauro. Le saline hanno bisogno di cure costanti. “Solo la manutenzione ci costa dai 10 ai 15.000 € all’anno, senza contare i costi per l’assunzione del personale“, dice il direttore dell’Esperanza.
E a volte la sfida sta nel confrontarsi con le autorità regionali… Nella vicina città di El Puerto de Santa Maria, la salina di San José non riceve alcuna cura da anni, come denuncia Clavero. Sebbene sia stata restaurata nel 2015 con fondi nazionali e dell’UE, ora giace nuovamente in stato d’abbandono. Nel 2019 il governo regionale dell’Andalusia ha lanciato un bando per l’assegnazione della concessione della salina. Il processo è stato annullato due volte, con Ecologistas en Acción che ha denunciato numerose irregolarità. Solo le entità a scopo di lucro potevano presentare domanda, il che ha spinto Ecologistas en Acción a presentare una proposta di collaborazione con un attore privato. Il governo ha però respinto la proposta della ONG “senza alcuna giustificazione”, come denuncia l’associazione. In seguito a forti critiche, il bando è stato rinnovato nel marzo 2020. Questa volta, Ecologistas en Acción ha presentato 60 misure specifiche, “che rispondevano a tutti i criteri stabiliti dal governo, ma alla fine abbiamo ricevuto 0 punti su 60, presumibilmente per ‘mancanza di concretizzazione‘”, ricorda Clavero con frustrazione.
La concessione della salina è stata assegnata invece a un’entità privata con piani di costruzione che violavano la Legge costiera. Il risultato è stato che il Ministero della Transizione Ecologica ha obbligato l’entità a restituire la concessione. Da allora, “non è stato fatto un nuovo bando e il caso è bloccato“, dice Clavero, tendendo una mano accusatoria verso la terra spaccata. Quattro anni dopo il primo appello, la salina è ora di nuovo completamente inutilizzabile. Secondo questo attivista dalla lunga esperienza, che ha lavorato come insegnante di scuola superiore per 45 anni a El Puerto de Santa Maria, il governo, semplicemente, non è interessato a cedere una salina a un ente no-profit, “nonostante il suo enorme potenziale educativo“.
Il salto nel buio
A La Esperanza, Demetrio Berenguer raccoglie senza fatica la vara lunga 10 metri, con il viso coperto dal sole e seminascosto da un cappello di paglia. Questo maestro del sale ha vissuto tutta la vita nelle paludi della baia, proprio come suo padre e suo nonno. Assunto dall’Università per la manutenzione degli stagni della palude e per regolare il flusso delle maree e dei riflussi, Demetrio sta anche trasmettendo le sue conoscenze a una nuova generazione di salinarɜ come Eva e Iryna. A differenza di Eva, Iryna, ucraina d’origine, non ha legami familiari con la salina. “Ho dovuto spiegare alla mia famiglia e aɜ mieɜ amicɜ in Ucraina cos’è una salina!“, dice la donna ridendo. Tuttavia, il fascino dei processi fisico-chimici naturali di cui è stata testimone nelle saline e il buon legame con la compagna di corso appena conosciuta hanno reso naturale la decisione di impegnarsi nella delicata produzione del sale marino.
Nessuna delle due aveva esperienza imprenditoriale, ma quando hanno saputo che La Esperanza affittava tajos per 10 euro all’anno hanno colto l’occasione al volo. La sera Iryna lavora per terminare il suo Master in Chimica, mentre di giorno si entusiasma per le loro sperimentazioni sul sale. “Ogni salina è un altro vento, un altro suolo, un’altra acqua, un altro mondo“, riflette.
Uno dei risultati del loro lavoro è l’adattamento delle vasche e degli strumenti alle condizioni fisiche delle lavoratrici del sale, storicamente escluse da questo mestiere. Le varas che utilizzano sono più leggere, realizzate in legno di eucalipto e alluminio, mentre i tajos sono larghi 3 metri invece di 5. “Queste opere di adattamento sono state fondamentali per permetterci di lavorare nei cristallizzatori, e speriamo che in futuro le porte delle saline vengano aperte a un maggior numero di donne“, dice Eva.
I cambiamenti hanno portato anche ad alcuni risultati sorprendentemente positivi, “visto che i laghetti sono più piccoli, sono più protetti dal vento e creano quindi più fior di sale“, spiega Eva. L’anno scorso sono stati raccolti 60 kg di fior di sale e 1 tonnellata e mezza di sale marino vergine. Tutto è andato esaurito nelle fiere artigianali e nei mercati gastronomici, dove sono state accolte molto positivamente, al contrario di quanto era capitato in passato a donne produttrici di sale, trattate con ostilità e scetticismo.
Non si tratta, tuttavia, di un’impresa facile. La sostenibilità economica della produzione tradizionale è una vera sfida. Come spiega l’attuale direttore del Parco Naturale Rafael Martín, uno dei problemi che affliggono ɜ coltivatorɜ di sale spagnolɜ è la mancanza di sussidi, di interesse politico e di una regolamentazione specifica del sale marino vergine. “La produzione di sale marino è considerata parte del settore minerario, classificata come minerale industriale. Se fosse inclusa nella legislazione agricola, come in Francia o in Portogallo, potrebbe beneficiare del finanziamento della PAC europea“. Anche le due imprenditrici sono consapevoli delle sfide. “Volevamo fondare una cooperativa, ma con i costi di compensazione e senza entrate era complicato e troppo costoso, così per il momento abbiamo costituito l’associazione ‘Las Salineras de la Esperanza’”.
Sale, ostriche e spa
Insieme alle mangrovie, le paludi sono uno degli ecosistemi più produttivi del mondo. Lɜ abitanti locali hanno tradizionalmente sfruttato questa situazione al meglio delle loro possibilità, traendo vantaggio non solo dal commercio del sale, ma anche dalla varietà di specie presenti. I salinari tendevano le reti nei canali di ingresso per catturare gamberi, orate e sogliole, e portare a casa la cena direttamente dal posto di lavoro. “Quando ero piccola mi piaceva molto andare nei canali a prendere ostriche e crostacei“, ricorda Eva. Lo stesso vale per la famiglia Ariza, che lavora a La Balvanera, una salina adiacente a La Esperanza, recentemente restaurata da una ONG locale chiamata Salarte.
"Qui tutto è naturale, niente è coltivato; è tutto quello che la marea porta qui."
Come Demetrio a La Esperanza, Juan Ariza è responsabile della regolazione delle chiuse e del mantenimento delle saline di Balvanera. Ma quest’uomo robusto, scavato in viso dal sole, raccoglie dall’estuario anche pesci e molluschi, come gamberi e ostriche spagnole e francesi. Il pescato lo rivende poi alle persone del luogo, sfruttando tutto ciò che l’ecosistema ha da offrire. “Qui tutto è naturale, niente è coltivato; è tutto quello che la marea porta qui“, spiega con il suo forte accento andaluso, togliendosi gli scarponi da lavoro.
Allo stesso modo, negli estuari vicino al tajo di Eva e Iryna, altrɜ imprenditorɜ coltivano salicornia – una pianta di acqua salata che cresce lungo gli stagni e resiste alla siccità – e alghe, sperando di trovare nuove potenzialità economiche all’interno delle paludi salate. Tuttavia, la sopravvivenza economica di Esperanza non sarebbe possibile senza i finanziamenti pubblici acquisiti attraverso l’università, quindi la salina ospita una serie di attività diverse. Le due donne affermano che, in futuro, “l’obiettivo è quello di creare una piccola esperienza termale salina, per mostrare i benefici sulla salute dei minerali presenti nelle saline“.
Livelli idrici e interessi per il carbonio
Allo stesso modo, un altro nuovo attore – invitato apertamente dalle attuali autorità del Parco Naturale – si è inserito nella baia nei primi anni 2020. Per contrastare il deterioramento dell’habitat, garantendo al contempo una sostenibilità economica, le autorità del parco prevedono di attingere alla redditizia economia del “carbonio blu”. Trattenendo enormi quantità di materia organica aggregata nel corso dei secoli, i terreni delle paludi salate trasformano questi ecosistemi in veri e propri “hotspot di carbonio”.
“In questo momento c’è un gruppo di aziende che si stanno accordando per investire e ripristinare un terreno paludoso. Si tratta di un primo progetto pilota“, afferma il direttore del parco, Rafael Martín. In cambio degli investimenti, le aziende riceveranno un certificato attestante la compensazione di parte delle loro emissioni. Tuttavia, gli investimenti possono anche aumentare il costo di concessioni già costose, avverte l’ONG locale Salarte. “Questo sta portando a speculazioni sui terreni pubblici“, afferma il fondatore Juan Martín. Di fronte a queste accuse, il direttore del parco ribatte: “La speculazione non è nelle nostre mani, e i benefici [di questi investimenti] superano i rischi“.
Tuttavia, Ecologistas en Acción lamenta la mancanza di trasparenza riguardo ai progetti di compensazione del carbonio, denunciando che le autorità non consentono la partecipazione e la supervisione delle organizzazioni civili e segnalando l’inefficacia di tali progetti – come stanno scoprendo numerose indagini. Sono sempre più le prove che mostrano la natura incerta dei più importanti progetti di compensazione delle emissioni di carbonio a livello mondiale, a causa delle loro carenze nel garantire le riduzioni aggiuntive e permanenti che invece affermano. Ciò ha portato a promesse gonfiate e a standard di carbonio viziati, come nel caso delle compensazioni forestali approvate da Verra, il principale certificatore mondiale.
In egual misura, il potenziale delle paludi di arrestare il cambiamento climatico tende ad essere sopravvalutato, afferma Anthony Campbell, il principale scienziato dello studio NASA che analizza lo stato delle paludi salate nel mondo: “L’accumulo di carbonio è un aspetto importantissimo, non lo sto sminuendo. Ma non risolve il cambiamento climatico“. Piuttosto, Campbell afferma che la conservazione delle paludi è importante perché si tratta di habitat che emettono carbonio: “L’altra ragione per cui dovrebbero essere preservate è che le paludi costiere possono svolgere un ruolo chiave nella mitigazione delle inondazioni e delle ondate temporalesche“.
"Abbiamo già dovuto alzare il muro perimetrale di mezzo metro perché il livello del mare continua a salire."
Mentre l’orologio del clima continua a ticchettare, l’intensità e la frequenza delle tempeste e delle alluvioni improvvise aumentano: una minaccia che si aggiunge anche all’innalzamento del livello del mare. Alla salina di Balvanera, “abbiamo già dovuto alzare il muro perimetrale di mezzo metro perché il livello del mare continua a salire“, ci racconta Juan Martín, fondatore di Salarte, mentre guida verso il bordo della parete rocciosa che impedisce alle acque il deflusso verso l’oceano. Alcune stime indicano l’inondazione di alcune città costiere della baia, come San Fernando, entro il 2070. Il ricercatore climatico Benavente concorda sul fatto che il mantenimento delle paludi saline sia una delle strategie più efficaci per mitigare i danni, dal momento che funzionano come una diga. “Le saline sono simili alle soluzioni basate sulla natura proposte dall’UE per contrastare il cambiamento climatico“, afferma.
Data la loro capacità di mitigare il cambiamento climatico, le paludi saline rappresentano uno spazio da cui le comunità costiere di tutto il mondo potrebbero trarre beneficio dal punto di vista economico, culturale e climatico. “Il carbonio è solo una piccola parte della storia“, riprende lo scienziato NASA Anthony Campbell, “la loro biodiversità, i loro habitat unici e la loro bellezza sono ciò che dovremmo riconoscere. Viviamo in questi sistemi“. Ecosistemi bio-culturali che, anche quando apparentemente aridi, fangosi e sporchi, mantengono una resistenza ancora spesso non sfruttata, nonché un ricco artigianato da preservare.
Eva e Iryna sperano di mantenere e sviluppare questa tradizione, che da secoli è parte integrante della Baia, incoraggiando altre persone – indipendentemente dalla loro origine e dal genere – a unirsi e imparare.”Quando abbiamo iniziato, la gente ci chiedeva: ma le saline esistono ancora nella baia? Ora, mia figlia dice orgogliosamente a scuola che sua madre è una salinaia“, dice Eva, chiudendo i cancelli di Esperanza. Ma solo fino alla prossima alba, quando li riaprirà di fronte alle prossime sfide.
This story has been produced with the financial support of the Coastal Resilience Solutions grant from the Earth Journalism Network.
Il sogno del carbonio blu
Lionel Denis si interessa da anni al ciclo del carbonio marino, il celebre carbonio blu. Quest’estate, presso la stazione marina di Wimereux, dove lavora, ha accolto scienziatɜ provenienti da tutto il mondo per discutere degli aspetti positivi e del funzionamento di queste aree che immagazzinano CO2.
In che modo il carbonio blu è utile nella lotta al riscaldamento globale?
Per capirlo appieno, bisogna tornare alle origini del cambiamento climatico, che è dovuto al rilascio da parte dell’uomo di grandi quantità di carbonio, principalmente sotto forma di anidride carbonica. Quando negli anni ’90 sono stati stimati i primi bilanci del carbonio, si pensava che i sedimenti sarebbero stati in grado di assorbire questa CO2, che l’oceano sarebbe riuscito ad assorbire l’eccesso di C02 prodotto dall’uomo. Si è scoperto poi che eravamo statɜ un po’ ottimistɜ. In realtà, l’oceano assorbe, ma non tutto, e ciò che è stato evidenziato negli ultimi 20 anni è che non tutte le parti dell’oceano contribuiscono alla riduzione dell’anidride carbonica atmosferica allo stesso modo.
Si parla di carbonio blu quando un ecosistema cattura più carbonio di quanto ne rilasci nell’atmosfera. Rimuove il carbonio dall’atmosfera del pianeta e lo immagazzina nei sedimenti per un periodo molto lungo. È questa la parte interessante.
Questo è il caso della Baia di Canche, dove lei lavora.
Sì, mi sono divertito a fare un piccolo calcolo: estuari come quello di Canche catturano l’equivalente delle emissioni di 700 veicoli all’anno. Questo significa che è importante preservarlo. Ma significa anche che non possiamo dire: ok, continuiamo così, il carbonio blu assorbirà tutto questo. No, il carbonio blu non assorbe tutto, assorbe una piccola parte delle emissioni. È importante sia ridurre la nostra impronta che supportare queste aree che catturano il carbonio.
Quest’estate scienziatɜ da tutto il mondo sono stati invitati alla Baia di Canche e alla stazione marina di Wimereux per una “scuola estiva di ricerca” sul carbonio blu.
Sì, abbiamo accolto e scambiato idee con 32 partecipanti di 19 nazionalità diverse, tra cui persone provenienti da Ecuador, Indonesia e Brasile. Qui siamo abituati a vedere soprattutto le praterie salmastre e le paludi intorno agli estuari. Ma quest’estate abbiamo parlato anche di ciò che accade nelle mangrovie, nelle praterie di posidonia e nell’oceano aperto. È importante capire che esistono diversi sistemi di carbonio blu in diverse parti del mondo. Inoltre, erano presenti figure con background diversi, alcunɜ geologɜ, altre persone provenienti da associazioni, dall’economia o dalla politica, ognunɜ con una propria visione del carbonio blu. Tuttɜ con un interesse comune, che è quello di preservare queste aree.
È questo il suo obiettivo?
Come scienziatɜ, quello che vogliamo è capire come funzionano. Ma con la crescente consapevolezza del riscaldamento globale, in alcune aree ci siamo resi conto che le cose possono cambiare, che la scienza non è solo scienza, è scienza che può essere applicata. Noi scienziatɜ possiamo trasmettere informazioni affinché questi elementi vengano presi in considerazione nelle decisioni politiche, a volte a scapito del turismo o degli aspetti industriali. E nel nostro caso, sì, il messaggio che voglio far passare è che dobbiamo preservare queste aree e aumentarne la superficie.