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Tornare a casa

14/02/2024

Aeroporto di Istanbul, 31 gennaio

Sono in coda al controllo passaporti. Fa caldo e sto sudando sotto il piumino, ma sono troppo stanca per toglierlo e tenerlo in braccio. Guardo la luce sopra lo sportello della prima fila: passa dal verde al rosso, poi di nuovo al verde, mentre un agente stanco e perennemente scazzato sfoglia le pagine del passaporto di turno.

Conosco bene tutto ciò: l’uniforme dellɜ agenti, il loro tono, il suono degli annunci dell’aeroporto e i rimproveri di una donna dietro di me verso i figli, che scorrazzano senza sosta. Tutto questo è casa. O meglio, lo era prima che anni fa mi trasferissi all’estero e prima che il Paese che aveva rilasciato il mio passaporto invadesse il suo vicino. Da quel giorno non ero più tornata.

Sono in taxi, l’autista kirghiso accende la radio e sblocca il suo smartphone. La voce femminile del navigatore dice “arrivo previsto tra 1 ora e 45 minuti”. Mi ero dimenticata dell’immensità di questa città.

La nuova musica pop russa riempie l’auto. Non conosco nessuna canzone. Queste voci mi sono nuove. Tra un brano e l’altro, il conduttore della radio legge le ultime notizie: nei prossimi giorni aumenterà il freddo, un magazzino è bruciato a San Pietroburgo, una nuova stazione della metropolitana aprirà nella parte sud della città… Nessun accenno alla guerra che è in corso da quasi due anni.

Appena butto l’occhio fuori dal finestrino, mi viene però in mente che qui ha un nome diverso. Passiamo davanti a dei cartelloni con i soldati che dicono “Unisciti al tuo esercito! Prendi parte all’operazione militare speciale, il nostro compito è proteggere la nostra madrepatria!”. Ogni tanto compare un altro tipo di manifesto: “Elezioni presidenziali 2024, vota per Putin!”.

Fuori c’è una tempesta di neve pazzesca, di quelle che mia nonna – dice – vedeva solo quando era ragazza. Cammino lungo una chruščëvka grigia, uno di quei palazzoni in cemento a blocchi degli anni ’60, cercando di nascondere il viso nella sciarpa. Penso a quanto velocemente mi sono abituata a questo clima. Vedo l’insegna al neon di un piccolo supermercato. Ci vuole tutta la mia forza per aprire la porta contro il vento feroce, ma alla fine ci riesco.

All’interno, c’è una differenza di temperatura di almeno 25 gradi, una sensazione che si prova solamente in un Paese dove nessunə si preoccupa di quanta benzina ha usato nell’ultimo mese. Il negozio è vuoto. Prendo una “sirok”, una barretta di formaggio dolce ricoperta di cioccolato, e vado a pagare con la carta.

Il POS ha un aspetto diverso: nell’angolo di uno schermo colorato vedo una piccola telecamera. Ricordo di aver visto una pubblicità in metropolitana: “abilita il pagamento biometrico e ricevi un cashback extra su tutti i tuoi acquisti”. Subito mi rendo conto che questa telecamera è destinata a coloro che potrebbero voler pagare la spesa con il proprio volto. Dentro di me, rabbrividisco.

È una delle cose che ho notato questa volta. Le telecamere sono ovunque: nei terminali di pagamento, ai tornelli quando si entra in metropolitana, negli ascensori. Questa sensazione di essere osservata, una sensazione orwelliana e strisciante di occhi che fissano la mia nuca, mi abbandonerà solo sull’aereo per l’Europa.

Ma la cosa che mi sconvolge di più non sono i cartelloni pubblicitari o le telecamere. Sono le cose che non sono cambiate. La gente si è abituata alla guerra. In metropolitana, osservo le persone accanto a me accendere la VPN e aprire Instagram, un’operazione che ormai compiono decine di volte al giorno. Nei centri commerciali, Zara e McDonald’s hanno nomi diversi ma vendono prodotti dall’aspetto e dal sapore simili. In aeroporto si parla degli scali che bisogna fare per arrivare in Europa, come se si trattasse di passare dall’auto alla metropolitana in un giorno di traffico intenso.

Quando dico a un’amica quanto sono sconcertata dal fatto che nessunə sembra riconoscere che c’è una guerra in corso, lei mi dice: “Ma cosa vuoi che faccia la gente? Quelli che non sono potuti partire non hanno scelta. Devono continuare a vivere in questa nuova realtà, devono adattarsi, altrimenti rischiano di perdere la testa”.

Mosca era la città di cui mi innamoravo a ogni mio ritorno. La città che occupava un posto speciale nel mio cuore per il numero di “prime volte” che custodiva: la prima festa, la prima sigaretta, il primo appuntamento. Questa volta, però, è diverso. Mentre esco dalla cabina del controllo passaporti e mi dirigo verso il gate per volare verso casa, percepisco un piccolo sassolino nello stomaco, fatto non di nostalgia, come un tempo, ma di amarezza e delusione. Quando il mio aereo decolla, tiro un sospiro di sollievo: ora sì che sto tornando a casa.

Masha

12 anni fa, Masha ha lasciato la Russia per studiare e poi lavorare in diversi Paesi europei. Condivide con noi le sue impressioni da un recente viaggio di dieci giorni a Mosca, dove non andava dall’inizio dell’invasione in Ucraina.

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