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La lingua del cuore

10/08/2023

La Valletta, 5 luglio 2023
Sono ormai più di vent’anni che vivo fuori dalla Bretagna, la punta occidentale della Francia, e più di 18 che sono all’estero. Quindi, a parte qualche scambio su WhatsApp con gli amici, non parlo molto sovente il bretone. Ma quando mia moglie è rimasta incinta di due gemelli, non mi sono posto il problema: era ovvio che avrei cercato di parlare bretone ai miei figli. È stato naturale.

Mia moglie è ungherese e viviamo a Malta, dove la scuola è in inglese. Quindi i miei figli di otto anni vivono in un magma linguistico. Ma non c’era ragione per cui dovessero imparare l’ungherese, l’inglese e il francese e non il bretone.

Sono cresciuto in Bretagna, ma purtroppo, come molti miei coetanei, il bretone non è la mia lingua madre. Non mi è stato insegnato, l’ho imparato da solo in seguito. In Bretagna c’è una frattura linguistica per cui i nonni non lo hanno insegnato ai genitori, che poi non l’hanno trasmesso ai figli. Per me questo è un grande rimpianto.

Ed è anche fonte di un po’ di rabbia, perché lo Stato francese ha causato questa frattura. Fino agli anni 50/60 c’è stata una vera e propria politica di francesizzazione, de-bretonizzazione e delegittimazione della lingua bretone, e un’intera generazione l’ha abbandonato. Ha preferito parlare ai loro figli un pessimo francese piuttosto che un buon bretone. A causa di questa denigrazione, le persone dell’epoca di mio nonno, che è morto due anni fa, non vedevano nemmeno più l’utilità di parlare bretone. Pensavano: “Oh, allora è una lingua per bifolchi e campagnoli? Va beh, allora parleremo solo francese con loro!”.

E così diverse generazioni sono state private di una lingua che era stata tramandata in famiglia. È questa ferita della mancata trasmissione che mi ha spinto a imparare il bretone, a interessarmi alla cultura e alla storia. E c’è anche uno spirito di contraddizione nel mio approccio: siccome la Francia voleva cancellare questa lingua, noi faremo il contrario. La faremo sopravvivere, così come la sua cultura.

Non crescerò i miei figli come francesi. Hanno così tante identità che si sovrappongono. Sono al 50% ungheresi, al 50% bretoni… e al 50% degli expat! Non c’è astio quando lo dico. Quando guardiamo il calcio e il rugby, tifiamo per la Francia. Ma io parlo loro della storia della Bretagna, che è piuttosto ricca – ci sono stati più o meno mille anni di indipendenza prima della Francia -, non dell’amore per la bandiera tricolore francese. Infatti, quella appesa nella loro camera da letto è molto più bianca e nera (i colori della bandiera bretone, ndr). L’obiettivo non è quello di creare degli indipendentisti, ma visto che non sono né nati né cresciuti in Francia, non hanno molto di francese, a parte il fatto di essere francofoni.

Oggi, eccezion fatta per qualche espressione o qualche ordine, ho quasi smesso di parlare bretone con loro, perché hanno dovuto concentrarsi sull’ungherese, che è più difficile da imparare, e sull’inglese, a scuola. Penso che torneranno a parlarlo da soli (al momento non riesco ad ascoltare una sola canzone bretone senza che mi chiedano di tradurla parola per parola). E al di là della lingua, la cosa più importante è il senso di appartenenza: sono cittadini francesi, ma prima di tutto bretoni. Per loro il bretone è Yezh ar galon, la lingua del cuore.

Thomas

Thomas è un “bretone puro”. Ha lasciato la sua regione a 18 anni e vive a Malta da oltre cinque anni con la sua moglie ungherese e i loro due gemelli di otto anni. Oggi è in grado di sostenere una conversazione in otto lingue, ma ha un rimpianto. Quando era bambino, la sua famiglia non gli ha mai insegnato il bretone. Così, quando sono nati i suoi figli, ha deciso in maniera spontanea di parlare loro in questa lingua.

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